Potrebbe sembrare prematuro per un verso, o già datato per altro verso, un dibattito sulle strategie di fondo di una nuova legge elettorale. Sarebbe per un verso prematuro parlare di legge elettorale prima delle riforme costituzionali; sarebbe per altro verso già datato parlare ancora di un vecchio bipolarismo all’indomani della nascita del governo Monti che certamente bipolarista non è.
È stato infatti del tutto preferibile aver posto una radicalmente nuova disciplina dei partiti politici a premessa di qualunque riforma elettorale, perché è di tutta evidenza che occorre innanzitutto sapere quali partiti politici parteciperanno alla nuova campagna elettorale nazionale. Qualora infatti si guardi in retrospettiva alle elezioni politiche del 2008, si può rilevare che si trattò di una sorta di esito terminale della tentazione di trasformare il nostro sistema politico da sistema partitico-parlamentare (quale era stato il sistema della cosiddetta Prima Repubblica) in sistema populistico-presidenziale.
In quelle elezioni si svolse infatti una vicenda caratterizzata sostanzialmente dalla pretesa di trasformare il sistema rappresentativo italiano in un sistema violentemente bipartitico nel senso di uno scontro anche radicale tra destra e sinistra. Questo tentativo fu sconfitto politicamente sia in Parlamento (dove risultò possibile formare il gruppo parlamentare dell’Udc, che si era significativamente tenuto fuori da quella contesa), sia nella società italiana, nella quale soggetti politici pur non presenti in Parlamento hanno dimostrato di poter tranquillamente svolgere attività politica significativa.
Nel corso dei quasi cinque anni trascorsi da allora, sono progressivamente venute meno anche le giustificazioni parlamentari di quel tentativo: da una parte vi è stata la dissidenza non solo personale di Gianfranco Fini; dall’altra parte vi è stata la dissidenza non solo personale di Francesco Rutelli. Quel bipolarismo risultava dunque non solo sconfitto alle elezioni, ma progressivamente perdente anche in parlamento, per non parlare di quel che accadeva nella società italiana al di fuori del parlamento stesso.
Tutta la questione istituzionale si è venuta pertanto concentrando sulla affermata necessità di una nuova legge elettorale. Ma questa affermata necessità non si è ancora tradotta in decisioni operative proprio perché nel dibattito stesso che concerne la riforma elettorale nazionale sopravvive in qualche misura questo “fantasma”. La questione di fondo riguarda infatti il cosiddetto premio di maggioranza che non viene condizionato a nessuna intesa di programma, proprio perché questa intesa per sua natura deve necessariamente tenere conto anche degli avvenimenti – non solo italiani – che possono prendere corpo nel corso di una legislatura nazionale.
Il premio di maggioranza si gioca infatti tutto nel giorno delle elezioni politiche, a prescindere da qualsiasi contenuto programmatico, sì che si è finito persino con l’affermare che una volta caduto il governo si debba tornare al voto. Non esiste esempio al mondo di un siffatto sistema politico-istituzionale, per la semplice ragione che in tutti i sistemi – pur nella loro differenza – è comunque compresa una qualche clausola di flessibilità, che consente appunto di tenere significativamente conto di quel che accade tra una elezione e l’altra.
Il “fantasma” non sembra avere più la forza di imporre una propria inaccettabile regola costituzionale, ma resiste e circola in qualche modo all’interno delle diverse proposte politico-elettorali che sono state poste all’attenzione del dibattito pubblico, mai come oggi necessario. L’aver pertanto posto la questione della natura del partito politico a premessa della stessa legge elettorale significa di conseguenza ragionare proprio sul significato profondo della legge elettorale medesima. Ancora oggi la questione resta la medesima che fu affrontata nelle elezioni del 2008: allora sembrò prevalere – in termini persino ossessivi – l’invocazione al cosiddetto “voto utile” in nome di una sorta di vocazione maggioritaria che sembrava aver per oggetto del desiderio la conquista più larga possibile del potere governativo, nella disattenzione sempre più evidente verso i problemi che riguardano la vita della gente comune.
Tutto il dibattito che si è venuto svolgendo in riferimento ai partiti politici sul tema della maggiore o minore “leggerezza” dei medesimi finisce pertanto con il condizionare il dibattito stesso sulla riforma elettorale.
Il “fantasma” del vecchio bipolarismo ha infatti prodotto conseguenze anche devastanti proprio per l’idea stessa di partito politico che si ha: non si tratta infatti soltanto del potere degli elettori di concorrere alla scelta o dei candidati (attraverso le cosiddette primarie), o degli eletti (con le liste bloccate), perché si tratta del molto rilevante contenuto della democrazia che si ha in mente.
Di Francesco D’Onofrio, tratto da Liberal del 3 marzo 2012