D’Onofrio: necessità e limiti di una legge sui partiti politici

Sembra che stia riprendendo – e che sia persino capace di concludere positivamente – l’antico dibattito sulla disciplina legislativa dei partiti politici. Nel corso della ultima legislatura sono state infatti presentate alcune significative proposte di legge su questo specifico tema.
Il dibattito in Commissione Affari Costituzionali alla Camera ha proceduto sin qui in un modo fortemente caratterizzato dal fatto che una legge sui partiti politici è ritenuta necessaria, quanto meno per quel che concerne il finanziamento stesso dei partiti, anche nella forma del cosiddetto rimborso delle spese elettorali. Si tratta di un dibattito antico perché fu proprio all’Assemblea Costituente che si discusse sul significato del metodo democratico che secondo alcuni doveva riguardare anche la vita interna dei partiti, laddove per altri il metodo democratico doveva riguardare solo il rapporto dei partiti tra di loro ma non anche una specifica modalità di organizzazione dei partiti medesimi. Non si trattava soltanto di un raffinato dibattito teorico, perché era in gioco la sostanza stessa del patto costituzionale che si andava a definire nella Costituzione repubblicana.

Occorre infatti ricordare che la vita politica italiana, all’indomani della seconda guerra mondiale, era determinata dal fatto stesso di una decisiva azione politica condotta da soggetti che si definivano appunto partiti politici, e che nell’insieme avevano assunto una sorta di ruolo costituente, come è testimoniato dal fatto che essi erano riuniti nel Comitato di Liberazione Nazionale, al quale si finiva appunto con l’attribuire anche una sorta di potere costituente. Come gli atti della Costituente dimostrano, vi erano sostanzialmente tre idee di partito politico: l’una poneva in risalto soprattutto il carattere individualistico ed elettorale dell’associazione in partito politico; l’altra poneva in evidenza la sostanza personalistica della idea stessa di partito che si concretizzava nella rigorosa difesa dei corpi intermedi tra società e Stato; l’altra infine, che sull’onda del modello sovietico rivendicava orgogliosamente una propria e distinta idea di democrazia, e quindi di partito politico teso per l’appunto alla realizzazione concreata di quella democrazia. Non sorprende pertanto che una volta ritenuta essenziale la salvaguardia di questa distinzione tra i diversi modelli di partito politico, non si registrasse alcuna intenzione di dar vita ad una comune idea di democrazia interna dei partiti politici medesimi. Troppe infatti erano le differenze di fondo tra individuo, persona e classe, perché si potesse giungere ad una qualche comune idea di partito politico.
Per tutto il tempo che ha caratterizzato la cosiddetta Prima Repubblica, non vi è stata pertanto alcuna possibilità politica di dar vita ad una legge sui partiti politici che vedesse sostanzialmente insieme i sostenitori della libertà individuale accanto ai sostenitori del personalismo comunitario ed ancor più accanto ai sostenitori della classe operaia, intesa quale soggetto promotore di una asserita democrazia autentica. La fine della Prima Repubblica ha assistito ad una sorta di larghissima espansione del principio individualistico ed elettorale. La conclusione dell’esperienza politica del cosiddetto socialismo reale ha a sua volta fatto ritenere non più comunque proponibile l’affermazione di un partito politico sostanzialmente ancorato all’idea di classe operaia. L’avvento del Governo Monti sta pertanto rendendo ora sempre più evidente l’opportunità di procedere in questo scorcio di legislatura ad una legislazione sui partiti politici, come non era mai avvenuto prima di ora, e come testimoniano per l’appunto i lavori “rapsodici” della Commissione Affari Costituzionali prima e dopo l’avvento del Governo Monti.

Occorre infatti aver presente che oggi si registra una crescente insoddisfazione degli italiani nei confronti dei partiti politici sia per ragioni antiche di latente qualunquismo nazionale, sia per la progressiva scomparsa del senso positivo del futuro, che concorre a fare avvertire come sempre più intollerabile lo statuto del “politico”, sempre più inteso in senso di privilegio e non di servizio. Necessaria dunque appare oggi una legge sui partiti politici perché per un verso sono venute meno talune delle distinzioni sul concetto di democrazia interna – che erano radicali al tempo della Costituente – e, per altro verso, vi è un bisogno crescente di riconquista della fiducia popolare nei confronti dei partiti politici medesimi. Occorre peraltro che si conservi anche nella disciplina legislativa – che è pur necessaria – un sufficiente margine di libertà che ciascun partito politico deve pur conservare per quel che concerne la propria organizzazione interna, ed in particolare i rapporti tra centro e periferia.
Appare opportuno infatti procedere nel senso di una formale attribuzione della personalità giuridica ai partiti politici, soprattutto per costruire su di essa una disciplina nuova del finanziamento stesso dei partiti. Altro infatti è un partito politico che vive esclusivamente nel momento elettorale (locale, regionale, nazionale o europeo che sia), altro è un partito politico che statutariamente affermi di voler operare anche nella continuità di indirizzo politico tra l’una e l’altra elezione.
Ed è proprio in riferimento alla organizzazione dei partiti politici che il rapporto strettissimo tra tempo e spazio – locale, regionale, nazionale ed europeo che si voglia – che si svolge proprio oggi la contesa su quell’asserito partito nuovo che  dovrebbe veder la luce alla conclusione dell’esperimento politico in atto.

Di Francesco D’Onofrio, tratto da LIberal del 17 marzo 2012

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