È di tutta evidenza che non vi è nessun serio esponente politico, al di qua o al di là dell’Atlantico, che possa per un solo momento immaginare di promuovere il rigore senza la crescita o, al contrario, la crescita senza il rigore. La questione infatti è molto più rilevante di quanto purtroppo non si sia talvolta costretti ad ascoltare in questo o quel dibattito televisivo.
Per quanto possa apparire paradossale, si sta discutendo del rapporto tra rigore e crescita, quasi che vi fosse qualcuno, tra gli europei o tra gli statunitensi, che possa ragionare nel senso di una versione aggiornata del vecchio brocardo”moglie ubriaca e botte piena”. È di tutta evidenza che non vi è nessun serio esponente politico, al di qua o al di là dell’Atlantico, che possa per un solo momento immaginare di promuovere il rigore senza la crescita o, al contrario, la crescita senza il rigore. La questione infatti è molto più rilevante di quanto purtroppo non si sia talvolta costretti ad ascoltare in questo o quel dibattito televisivo, allorché viene esaminata la situazione economica italiana nel contesto della lettera della Bce, che indica gli interventi finanziari necessari per evitare un vero e proprio collasso economico-finanziario dell’Italia.
Non del tutto sufficiente è stato del pari il dibattito parlamentare relativo alla introduzione nella Costituzione italiana del principio sostanzialmente tendente alla parità di bilancio. In questo caso è persino sembrato che vi sia qualcuno contrario al principio della parità di bilancio in quanto tale, perché è altrettanto di tutta evidenza che gli squilibri di bilancio fanno parte persino del trattato di Maastricht, anche se il principio della parità di bilancio è in qualche modo tendente a rafforzare proprio la previsione del deficit di bilancio prevista a Maastricht.
La questione di fondo tra Europa e Stati Uniti concerne la natura della crisi economico-finanziaria in atto: si tratta di un ciclo tendenzialmente orientato alla recessione, o di un esito per così dire “strutturale” connaturato al dominio pressoché incontrollato della finanza sulla stessa economia reale? Nel primo caso infatti – come ripetutamente affermano esponenti politici ed economici statunitensi – si tratta di operare nel ricordo specifico delle azioni intraprese al tempo della Grande Crisi del 1929; nel secondo caso – come ripetutamente affermano esponenti politici ed economici tedeschi – si tratta di affermare consapevolmente che l’equilibrio di bilancio costituisce premessa essenziale per una qualsiasi politica economica tendente alla crescita.
La divergenza tra Stati Uniti e Unione Europea non è tra chi vuole la crescita e chi impone il rigore, ma riguarda il giudizio – politico prima ancora che economico – sulla crisi in atto. Si tratta di una crisi iniziata negli Stati Uniti nel corso del decennio precedente soprattutto perché mancava una qualunque disciplina legislativa relativa all’utilizzo degli ormai famosissimi “derivati” (sì che la crisi europea in atto è da intendersi in qualche modo una conseguenza della originaria crisi statunitense e non una sorta di crisi integralmente europea) o si tratta di due crisi strutturalmente diverse sì che possono occorrere discipline economico finanziarie necessariamente diverse le une dalle altre?
Nella prima ipotesi saremmo in presenza di una modalità specifica del capitalismo finanziario in tempo di globalizzazione: da un lato avremmo una sorta di sostanziale accettazione da parte angloamericana della attuale fase storica del capitalismo inteso quale modo di produzione anche tendenzialmente sganciato dalla manifattura, sì che occorrerebbe una politica economico-finanziaria tendente sia al rigore del bilancio, sia alla introduzione di discipline legislative concernenti proprio questa fase del capitalismo prima ancora che posti di lavoro strutturalmente legati alla produzione manifatturiera. Se così fosse, sarebbe corretta la posizione tedesca che ritiene che quella in atto sia una crisi strutturale del capitalismo e non una crisi ciclica congiunturale come fu quella del 1929, che diede vita al New Deal di Roosevelt.
Nella seconda ipotesi ci troveremmo di fronte ad una vera e propria congiuntura economico-finanziaria rispetto alla quale l’obiettivo strategico resta quello della creazione di posti di lavoro, anche a costo dell’incremento del deficit di bilancio.
Ad aggravare ulteriormente questa situazione sta il fatto che gli Stati Uniti da un lato sono un vero e proprio Stato continentale anche se federale, mentre in Europa abbiamo una sorta di moneta continentale senza che vi sia un adeguato Stato di pari livello. Non si tratta di una astratta questione accademica, come hanno molto opportunamente posto in evidenza molti studi recenti dell’una e dell’altra sponda dell’Atlantico. La novità straordinaria che costituisce un elemento diverso anche dalla crisi del ’29 è per altro oggi rappresentata dal processo di globalizzazione in atto che tende a modificare alla radice il rapporto tra l’Europa e gli Stati Uniti da un lato, e il resto del mondo dall’altro.
Questo rapporto è stato a lungo considerato quale contrapposizione anche ideale di fondo tra l’Occidente eurostatunitense e l’Oriente prevalentemente sovietico, mentre oggi il processo di globalizzazione tende ad una sorta di multipolarismo mondiale nel quale è proprio il rapporto tra Europa e Stati Uniti a richiedere una diversa capacità di riflessione e di analisi da parte di entrambi.
Il fatto che si svolgano quest’anno le elezioni presidenziali statunitensi, e l’anno prossimo le elezioni tedesche generali, introduce un ulteriore e molto significativo elemento di tendenza alla tutela dell’interesse nazionale nazionalisticamente inteso, che rischia di occultare la sostanza stessa del problema che abbiamo di fronte.
Si deve cercare invece un equilibrio tra rigore e crescita nuovo sia per gli Stati Uniti sia per l’Europa, perché un nuovo equilibrio è necessario in questo tempestoso tempo di globalizzazione nel quale gli uni e l’altra non sono più detentori del sostanziale monopolio delle decisioni economiche e finanziarie del mondo.
Di Francesco D’Onofrio, tratto da Liberal del 19 maggio 2012