D’Onofrio: L’Europa tra ideali e ideologie

Non si è mai ascoltato o letto tanto sull’Europa quanto in queste ultime settimane. Per un verso, è come se si fosse all’improvviso scoperto che esiste un contesto non solo economico legato al nostro continente. Per altro verso, si è assistito e si assiste ad una sostanziale rivendicazione di una sorta di ormai utopica sovranità nazionale, quasi che l’Italia fosse immersa da sola in un oceano disabitato. Allorché, infatti, si passa a discutere dell’ultimo turno amministrativo, assistiamo da un lato, all’affermazione (forse ancora troppo timida) della necessità di una sostanziale continuità europeistica, mentre dall’altro vi è chi sostanzialmente continua a ritenere che quella del Governo Monti è stata soltanto una parentesi, o che esso è servito soltanto perché ha messo fuori gioco il Governo Berlusconi.
In questo ultimo senso, infatti, rileviamo con rammarico che si discute ancora troppo poco sul fatto che l’Italia fa parte, non da oggi, del processo di integrazione europea, al quale essa stessa ha dato vita quasi sessant’anni fa. Si tratta sostanzialmente di una questione di classe dirigente, politica e non soltanto politica.

Fu infatti una straordinaria capacità di leadership politica quella che condusse Adenauer, De Gasperi e Schumann ad immaginare che soltanto un autentico processo di integrazione europea avrebbe potuto costituire una salda remora per nuove guerre intraeuropee, perché rigidi nazionalismi avevano dato vita alla prima e alla seconda guerra mondiale. L’ideale europeistico, pertanto, ha vissuto e vive diverse stagioni e diverse velocità, come dimostrano analisi attente della Commissione europea, del Parlamento europeo e del Consiglio europeo.
La lunga stagione della Guerra fredda aveva infatti finito con il radicare in alcuni Paesi europei continentali una sorta di ideologia comunista, che per lunghi anni ha rappresentato un tentativo di combinare internazionalismo filo-sovietico e nazionalismo anti-europeo. La fase attuale del processo di integrazione europea costituisce, pertanto, un punto di scontro più volte già sperimentato tra i sostenitori di un vero e proprio processo comunitario europeo e i sostenitore di una stagione prevalentemente intergovernativa. Il primo ha trovato e trova sostegno soprattutto nella Commissione europea, mentre la seconda vede nella difesa della sovranità statale un punto di forza ineludibile.
Il Parlamento europeo oscilla tra l’una e l’altra ipotesi, anche se cerca comunque di tener viva la dimensione di una ipotetica democrazia politica europea, della quale esso sarebbe in qualche modo il testimone e il garante.

Questo è sostanzialmente il bipolarismo istituzionale europeo, del quale sembra peraltro non esservi traccia nel dibattito politico italiano, nel quale sopravvive in qualche modo un simulacro almeno del vecchio ideologismo comunista. In questo contesto le azioni politiche del dopo Monti devono pertanto essere ispirate da una scelta che vede nel rafforzamento del processo europeo un punto fondamentale di orientamento, pur tenendo conto della durezza con la quale gli Stati tendono a conservare ancora una parte sostanziale della propria sovranità.
Solo all’interno di questo bipolarismo si è collocato nella storia europea il confronto tra popolari e socialisti, anche se nel corso degli anni il loro scontro ha finito quasi con il diventare una sorta di contrapposizione tra centrodestra e centrosinistra sul piano della cultura stessa dell’economia sociale di mercato e, quindi, del ruolo che in essa svolgono lo Stato e i poteri pubblici da un lato, e la persona e le comunità intermedie dall’altro.

Di questo bipolarismo integralmente europeo non sembra esservi ancora nel nostro Paese una compiuta consapevolezza, proprio perché sembra che si insegua da un lato qualcosa che assomiglia al vecchio ideologismo comunista, e dall’altro si continua ad ignorare che integrazione europea e Partito popolare europeo sono stati due prodotti di classi dirigenti nazionali ed europee, e non soltanto prodotti di questo o quel partito politico.
È dunque in questo contesto che si può collocare anche la questione, oggi molto acuta, del rapporto tra rigore e crescita. Non esiste un processo di integrazione europea che si sostanzi esclusivamente in un rigore solo fiscalmente interpretato; così come non è ipotizzabile alcuna ipotesi di stabile e non velleitaria crescita senza l’acquisizione di adeguati comportamenti personali, fiscali e non fiscali, sociali e non corporativi, familiari e non familistici, capaci di essere ad un tempo italiani ed europei. Una riflessione accurata – e non soltanto emotiva – sui risultati del primo e del secondo turno amministrativo che abbiamo alle spalle impone dunque di saper utilizzare il tempo che ci separa dalle prossime elezioni politiche per dar vita proprio ad un grande soggetto politico di ispirazione europeistica, saldamente ancorato alla realtà italiana.

Di Francesco D’Onofrio, tratto da Liberal del 23 maggio 2012

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