D’Onofrio: Tra la strana maggioranza e le riforme costituzionali

Si è dunque deciso di valutare nella prossima settimana se vi sono o no le condizioni per una riforma costituzionale radicalmente diversa da quella emersa in Commissione Affari Costituzionali a seguito dell’intesa dei partiti che formano la cosiddetta “strana” maggioranza. Si è infatti improvvisamente discusso della possibilità di trasformare il Senato della Repubblica in Senato federale – secondo quanto tradizionalmente richiesto dalla Lega Nord – per consentire a questa di esprimersi a favore del cosiddetto semipresidenzialismo alla francese, presentato dal Pdl con “emendamenti” alla riforma originariamente concordata con Pd e Udc, ossia proprio con i partiti della cosiddetta “strana” maggioranza.

Non vi è alcun dubbio che sulle riforme costituzionali si possano formare anche maggioranze diverse da quelle che sostengono i governi in carica. Ma – nel caso di specie – si tratta di questione radicalmente diversa da quella astrattamente ipotizzabile sulla base di un puro esame tecnico della costituzione italiana.
Il governo Monti è infatti sostenuto ma non prodotto da quella che lo stesso Monti ha saggiamente definito essere una “strana” maggioranza. Strana infatti la maggioranza che sostiene il governo Monti lo è proprio perché non è un insieme politico che dia vita ad una vera e propria maggioranza politica ma – per così dire – è una sorta di quelle convergenze che Moro avrebbe definito “parallele”, in quanto destinate a tenere in vita il governo Monti per ragioni per così dire estranee agli orientamenti originari di Pd e Pdl.

Questi due partiti avevano infatti dato vita ad una cultura di radicale alternatività degli uni rispetto agli altri. Si trattava della ultima “incarnazione” del bipolarismo all’italiana, per tale intendendosi il mettere insieme soggetti politici anche diversi dal punto di vista della strategia di governo, ma tenuti insieme comunque e sempre per il desiderio di concorrere per vincere le elezioni politiche. Il contrasto a questo bipolarismo aveva finito con il coinvolgere anche la tradizionale divisione tra destra e sinistra, in quanto si era progressivamente venuto affermando una apparentemente più tenue alternativa tra centro-destra e centro-sinistra. In questa ultima ipotesi verrebbe dunque ad essere determinante l’elettorato di centro, visto di volta in volta quale elemento essenziale per la vittoria dell’uno o dell’altro schieramento, ma non anche quale elemento capace di dar vita ad un soggetto autonomo dotato di propria cultura di governo. In questo tipo di bipolarismo veniva pertanto negata l’ipotesi stessa di un soggetto politico che non scegliesse tra destra e sinistra, pretendendosi che queste sarebbero le due sole categorie tra le quali si debba scegliere.

In questo contesto l’ipotesi ha finito con il rendere strutturalmente non accettabile l’idea stessa di una qualunque formazione di governo che volesse essere capace di determinare il successo anche della destra o della sinistra, a loro volta divenute complementari rispetto alla stessa maggioranza di governo. Le riforme costituzionali promosse dunque dalla “strana” maggioranza assumono il valore fondamentale delle riforme determinate dalla convergenza di tutte le forze politiche che sostengono il governo: quel che manca alla “strana” maggioranza nella formazione del governo Monti diventa pertanto rilevante proprio nella definizione delle riforme costituzionali concordate tra le stesse forze politiche. La decisione di dar vita a riforme costituzionali basate dunque su una maggioranza parlamentare non proveniente dalle convergenze parlamentari che hanno dato vita al governo Monti, costituisce pertanto una sostanziale rottura di questa convergenza perché verrebbe riaffermata la sostanziale coincidenza di maggioranza costituzionale e maggioranza politica, entrambe pertanto rimesse ad una decisione non di tecnica costituzionale ma di vera e propria alternativa politica.

Allorché infatti si consideri che la costituzione vigente prevede l’eventualità che non si faccia ricorso al referendum popolare qualora sia stata conseguita in ciascuna camera e in seconda deliberazione la maggioranza dei due-terzi dei parlamentari assegnati, si finisce di conseguenza con il distinguere tra maggioranza assoluta e maggioranza a due-terzi proprio perché si tratta della esistenza o meno della convergenza dei partiti maggiori sulle riforme costituzionali. Il fatto che i partiti maggiori all’Assemblea Costituente erano il Partito Comunista Italiano e la Democrazia Cristiana – mentre oggi i partiti maggiori in Parlamento sono il Pd e il Pdl – rende dunque evidente che una riforma costituzionale che non veda il convergere di entrambi i partiti maggiori, finisce con il costituire una sorta di vulnus indiretto alla stessa norma costituzionale dell’articolo 138. La “strana” maggioranza si è infatti venuta formando in virtù di una specifica tutela dell’interesse nazionale che ha visto mettere da parte le visioni non coincidenti su questo interesse tra i diversi partiti che sostengono il governo Monti.

Riforme costituzionali sulle quali non vi è un consenso dei soggetti che hanno dato vita al governo Monti sarebbero pertanto conseguenza di una idea stessa di interesse nazionale diverso da quello che ha rappresentato il sostegno parlamentare al governo Monti. Sono queste pertanto le ragioni che inducono a ritenere che se il consenso si registrasse esclusivamente sulla riduzione del numero dei parlamentari (quale che ne sia la motivazione), sarebbe preferibile lasciar da parte le altre due questioni di fondo che hanno rappresentato e rappresentano posizioni di parte e non di larghissima convergenza parlamentare.

Di Francesco D’Onofrio, tratto da Liberal del 23 giugno 2012

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