D’Onofrio: La quarta fase del federalismo

Sembra che all’improvviso si debba diventare tutti antifederalisti. Qualche anno fa sembrava, al contrario, che si dovesse essere tutti federalisti. Occorre capire – spero che questa sia l’ultima volta – che il federalismo non è una moda né un modello di vestito, come il bikini; la minigonna; il doppiopetto; la bombetta inglese. Se si esamina con un minimo di attenzione culturale, storica e politica il dibattito sul federalismo nell’Italia del secondo dopoguerra; se si guarda alla fase storica dell’attuazione dell’ordinamento regionale ordinario; se si guarda al federalismo proposto soprattutto dalla Lega Nord negli anni Novanta, finiamo infatti con il constatare che oggi siamo in presenza di una quarta fase del federalismo, quella del raccordo tra federalismo interno e processo federalistico europeo.

Occorre infatti saper guardare almeno sommariamente alle tre precedenti fasi. In quella che si può definire la prima fase del federalismo occorre capire fino in fondo il significato che questa parola ebbe nei lavori dell’Assemblea Costituente: si prese atto che esistevano motivi speciali per alcune regioni, che anche per questo motivo diventarono ad autonomia speciale, ma si decise contestualmente che l’unità e indivisibilità della Repubblica non potevano essere messe in discussione da qualunque tipo di federalismo. Ne conseguì una rigorosa scelta costituzionale che prevedeva contemporaneamente statuti speciali per alcune regioni soltanto, e ordinamento cosiddetto ordinario per le altre regioni caratterizzato questo dal primato legislativo dello Stato unitario. L’avvento delle regioni a statuto ordinario non vide la luce per tutta una stagione nella quale l’attuazione costituzionale incontrava difficoltà politiche prima ancora che giuridiche.
Questa prima fase va dal 1948 al 1970. In tutto questo periodo – che possiamo pertanto considerare la fase del federalismo – si parlava di regioni prevalentemente burocratiche e non anche di regioni culturalmente identificate, quali avrebbero potuto essere ad esempio il Salento, il Sannio e la Lunigiana.
 La nascita delle regioni a statuto ordinario avviene infatti per ragioni prevalentemente politiche: l’originaria cultura autonomistica della Democrazia Cristiana finiva con lo sposarsi con quella sorta di conventio ad excludendum che sostanzialmente impediva al Partito Comunista Italiano di rappresentare un’alternativa internazionalmente accettata, mentre appariva del tutto compatibile con questa conventio l’accesso del Partito Comunista alla guida di governi regionali. Questa seconda fase del federalismo finisce pertanto con l’avere un promotore politico e nazionale allo stesso tempo, caratterizzato in particolare dalla idea di fondo che non potesse esservi una politica economica distinta per regioni.
Questa seconda fase si sostanzia in particolare nel processo di “completamento” dell’ordinamento regionale che avviene in particolare tra il 1975 e il 1977. L’idea di fondo di quel periodo fu rappresentata dai settori omogenei di attività. Le regioni si ritenevano sostanzialmente quali enti legislativi; con competenze limitate per quel che concerne lo sviluppo economico, che restava una sostanziale prerogativa unitaria statale; le province divenivano il perno amministrativo della vita locale con particolare riferimento alla politica urbanistica e alla cultura ambientalistica; i comuni a loro volta diventavano titolari tendenzialmente onnicomprensivi delle funzioni concernenti i servizi sociali. Omogeneità delle funzioni e tripartizione degli enti locali – comuni; province; regioni – rappresentarono pertanto le coordinate culturali e politiche di fondo di questa seconda fase del federalismo.

Con l’avvento della Lega Nord a componente essenziale del governo nazionale, il regionalismo compie una sorta di salto di qualità, diventando sostanzialmente federalismo anche potenzialmente divisivo. Basti considerare il modo con il quale il federalismo fu discusso in seno alla Commissione bicamerale presieduta da D’Alema. Cominciava pertanto una sorta di terza fase del federalismo. Di questa nuova ipotesi faceva parte in modo integrante sia la riorganizzazione del parlamento in senso federalistico, sia l’acquisizione del federalismo quale modo normale di esercizio della funzione di governo nazionale e di garanzia dell’unità nazionale pur in presenza di una pluralità di centri autonomi di legislazione.
Questa terza fase è vissuta per così dire di due eventi particolarmente significativi: l’approvazione del cosiddetto Titolo V da parte del centrosinistra sul finire della legislatura 1996-2001 e la votazione di una più ampia riforma costituzionale approvata dal centrodestra nel 2005. La prima fu approvata con referendum popolare nell’ottobre 2001, la seconda fu respinta con referendum popolare nel 2006. In questa terza fase il federalismo aveva finito ormai con l’essere concepito quale modello istituzionale promosso dalla Lega Nord. In nessuna delle tre fasi precedenti si può stabilire pertanto una sorta di consequenzialità naturale tra federalismo e spesa pubblica, e ancor meno tra federalismo e attitudine agli sprechi da parte di soggetti investiti di funzioni elettive.

Questa seria riflessione sulle tre fasi precedenti consente ora di guardare alla stagione nuova del federalismo italiano in un quadro dettato in prevalenza dal rapporto tra sovranità economica nazionale e integrazione europea. È di tutta evidenza che il processo di integrazione europea spinge a forme progressive di omogeneità tra i singoli stati nazionali, e quindi, da questo punto, di vista può persino ritenersi che il federalismo interno contrasti proprio con il processo di integrazione europea. Ma anche in questo caso occorre saper superare la tentazione di una lettura puramente di moda del federalismo. Si può infatti rilevare che i diversi paesi d’Europa hanno vissuto e vivono stagioni diverse del rapporto tra centro e periferia. Basti pensare in particolare al modello prevalentemente centralista francese, e al contrario al modello tedesco prevalentemente decentrato.
 Occorre pertanto che anche in Italia si riesca a vincere la tentazione di una sorta di “gattopardismo federalistico”: un tempo si era tutti federalisti; oggi sembra che si debba essere tutti antifederalisti. Occorre invece guardare al nuovo equilibrio che in questa quarta fase verrà a costruirsi tra territori e integrazione europea. Non si tratta di una impresa semplice, ma è pur sempre un’impresa necessaria, culturalmente prima ancora che giuridicamente.

Di Francesco D’Onofrio, tratto da Liberal del 29 settembre 2012

 

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