Roma, 20 luglio 2013 – Permettetemi innanzitutto un ringraziamento non formale, ma davvero sentito a ognuno di voi. Se siamo al governo del Paese lo dobbiamo a voi, alla vostra dedizione, alla vostra pazienza e al vostro lavoro. A volte lo dimentichiamo, ma ciò che ha consentito all’Italia di vedere una luce in fondo al tunnel e’ stato il vostro senso civico, la vostra dedizione all’Udc senza la quale non avremmo potuto fare nelle istituzioni un lavoro indispensabile per il cambiamento. Questa vostra assemblea, cosi bella e partecipata, è quasi anomala per la politica di oggi, sempre più in crisi d’identità e di rappresentatività: e’ un segnale che ci siamo, che non siamo spariti come qualcuno vorrebbe far vedere o spererebbe, che siamo pronti a rinnovarci e a ripartire. Si, perché non basta ripartire se la gente non percepisce che vogliamo cambiare rinnovandoci in profondità. Dobbiamo saper leggere fino in fondo e in maniera autocritica e impietosa il risultato delle elezioni politiche e quello altrettanto sconcertante (vista l’enorme percentuale di astensioni) delle ultime elezioni amministrative. Cosa potevamo aspettarci di diverso dalle urne in un Paese, il nostro, che – secondo l’Istat – ha 9 milioni e mezzo di italiani (circa il 15% della popolazione attiva) che sono a tutti gli effetti poveri?
Un Paese nel quale una famiglia su 5 vive in condizioni di indigenza. Un Paese nel quale, il prossimo anno secondo l’Osce, la disoccupazione arriverà al 12,6% e quella giovanile al 35,3%. Un Paese in cui un giovane su due ha un contratto precario. Questi sono alcuni significativi e drammatici numeri della crisi. Stanno in questi numeri impietosi le macerie lasciate da una crisi economica che da troppo tempo ormai attraversa il tessuto sociale italiano. Una crisi che, però, non è solo economica, ma anche , profondamente etica e politica. Un Paese in queste condizioni, vittima di una politica costruita attorno a un bipolarismo fallimentare, profondamente degradata dalla corruzione, dall’ignoranza e dalla insipienza, ha votato con rabbia e con disprezzo punendo fortemente tutti i partiti tradizionali che sono stati, a diverso titolo, protagonisti dell’ultimo ventennio. Non pensiamo solo al Pd e al Pdl o a noi dell’Udc, pensiamo alla Lega, ai paladini della legalità di Italia dei Valori, alla cosiddetta sinistra radicale. Insomma, ai vecchi partiti del sistema e (per cosi dire) dell’antisistema. Un Paese in queste condizioni non ha voluto scegliere un governo e un parlamento in grado di governare. Un Paese cosi sfiancato da una durissima cura da cavallo che ha subito per non morire, ha solo punito la sua classe dirigente gettandola nella confusione e nello sconforto. Non si spiega diversamente il voto a Grillo e al suo movimento. Non si spiega diversamente l’incapacità mostrata da Grillo e dal suo movimento in questi mesi di farsi interpreti di una cultura di governo e di un autentico rinnovamento istituzionale.
Gli italiani hanno voluto punire tutti, buoni e cattivi, per il troppo tempo passato a litigare e a dividersi su questioni inutili. Gli italiani hanno punito tutti, buoni e cattivi, perché la politica si è chiusa a riccio nella sua autoreferenzialità, facendo finta di niente, secondo il motto per cui un problema rinviato è mezzo risolto. Una politica che ha rinunciato a comprendere la società italiana. Una politica che, in zona Cesarini, senza mostrare alcuna volontà di autoripresa ha scaricato sul governo tecnico il compito ingrato di fare il lavoro sporto, di tirare il Paese fuori dalla procedura fallimentare scaricando pesantemente sul ceto medio il costo maggiore della crisi. La politica del rigore che abbiamo dovuto, nostro malgrado, abbracciare ci ha fortemente penalizzato. Gli elettori ci hanno punito troppo severamente anche se, dobbiamo riconoscerlo con assoluta franchezza, le politiche di risanamento indispensabili e inderogabili, proprio perché adottate in stato di necessità, hanno si garantito la tenuta dei conti pubblici, ma hanno contemporaneamente aggravato endemiche disuguaglianze sociali e territoriali, alle quali da oggi in poi dobbiamo rimediare. Le elezioni di febbraio hanno prodotto, comunque, un risultato positivo per il Paese cui noi abbiamo fortemente contribuito: la fine della seconda Repubblica e del finto bipolarismo che nel ventennio ha provocato danni gravi e irreparabili. La nostra profezia del 2006-2008, l’originale e solitaria intuizione di Pier Ferdinando Casini, si è realizzata: la scomposizione degli schieramenti tradizionali governati da minoranze estremiste e (con toni e modalità diverse) populiste e massimaliste. Siamo quindi entrati in una fase nuova e diversa, eccezionale, che conclude una lunga ed estenuante transizione.
Come definire diversamente questa nuova stagione in cui, per la prima volta nella nostra storia repubblicana, abbiamo rieletto per un secondo mandato il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano (e per fortuna che ha accettato, bravi noi ad averlo fatto); una stagione in cui tutti insieme abbiamo dato vita a un governo politico di solidarietà nazionale che ha definitivamente rotto i vecchi schemi delle precedenti alleanze politiche, lasciando contemporaneamente all’opposizione destra populista e politica da una parte, sinistra massimalista e radicale dall’altra. Entrambi insieme a Grillo (riedizione in versione 2.0 dell’Uomo Qualunque di Giannini). In poche parole, si sta aprendo una fase nuova nella società e nella politica italiana. Dobbiamo avere buone lenti per saper leggere i segni del cambiamento e per fissare la nostra nuova rotta politica. Tutto ciò in una società, la nostra, profondamente mutata in questi venti anni e, sicuramente, non in meglio. Sono cresciute le disuguaglianze, gli innumerevoli svantaggi competitivi per i cittadini, le famiglie e le imprese. Per i giovani, per la nostra organizzazione sociale, per il nostro sistema istituzionale, per il ruolo geopolitico dell’Italia. Questo nuovo e imprevedibile scenario impone una riflessione e, soprattutto, ci obbliga a essere fondatori e pionieri di una nuova offerta politica calata dentro un mutato assetto istituzionale e di governo del sistema Paese. Se è vero che il bipolarismo antagonista e velleitario della Seconda Repubblica è finito seppellito sotto le macerie della crisi, dei diffusi fenomeni di malcostume e della ingovernabilità di un sistema istituzionale anarco-federalista, allora oggi il primo nostro obiettivo deve essere quello di ricostruire un nuovo assetto politico e istituzionale fondato su di una vera e virtuosa democrazia dell’alternanza. Dobbiamo lavorare e cambiare finalmente in meglio la nostra Costituzione, introducendo l’elezione diretta del presidente del Consiglio e una legge elettorale a doppio turno nazionale sul modello di quella comunale che consenta di scegliere premier e Parlamento in maniera omogenea sulla base dei programmi correnti, senza alimentare aspettative e pulsioni populiste che nel medio e nel lungo periodo faranno crescere l’irreversibile sfiducia dei cittadini nei componenti delle istituzioni. Un governo forte a confronto con un Parlamento altrettanto forte e autorevole, perché dimezzato nel numero dei suoi componenti.
Questo nuovo assetto istituzionale è diverso da quello che alcuni a destra e a sinistra vogliono con l’istituzionalizzazione dell’uomo solo al comando o del leaderismo a vocazione carismatica tipico del semipresidenzialismo (esperienza, questa, che sta mostrando evidenti limiti in tutti i Paesi in cui esiste). Semipresidenzialismo e crisi non vanno molto d’accordo , anzi diventano una miscela esplosiva che rischia di esplodere deviando ora nell’autoritarismo, ora nell’anarchia e nel ribellismo sociale. Cosi come dobbiamo cambiare l’attuale assetto dei poteri e della governance istituzionale della Repubblica. Uno Stato che ha gonfiato a dismisura il proprio debito pubblico e la propria spesa, moltiplicando corruzione e burocrazie anziché qualità dei servizi alle famiglie e alla persona è uno stato destinato ad implodere, creando miseria e moltiplicando i conflitti sociali. Va posto limite e rimedio subito, senza indugi e con cocciuta determinazione, prima che sia troppo tardi. Passaggio connesso e indispensabile è la totale e radicale riforma della politica con una nuova legge sui partiti e con l’abolizione del finanziamento pubblico cosi come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi. Diciamolo con franchezza: i partiti nella seconda repubblica sono stati una finzione, una foglia di fico appesa ai capibastone che hanno fatto il bello e il cattivo tempo. Il finanziamento pubblico in parte è stato utile e in parte è servito in maniera squallida a finanziare partiti e movimenti, che si sono trasformati in patronati per indigenti, questuanti e faccendieri. Cambiare il sistema di finanziamento della politica e regolare la partecipazione democratica dei cittadini alla vita pubblica attraverso i partiti non è solo una necessità, ma un passaggio irrinunciabile se si vuole salvare la nostra democrazia.
Cosi solo possiamo sperare di riportare alla politica le nuove generazioni, riaccendendo in loro la fiamma della passione civile. Senza passione civile, amore per le Istituzioni, disinteresse per il potere come status symbol, non si costruiranno partiti forti e radicati che sopravvivano ai propri leader. Non ci sono più scorciatoie, anche perché sono state prese già tutte. I risultati sono tristemente sotto gli occhi di tutti: fare finta di niente non risolve i problemi né li rimuove, concorre a farci perdere credibilità e consenso. Dobbiamo costruire partiti nuovi, forti e, soprattutto, a dimensione europea. Non solo perché il nostro prossimo obiettivo è costruire una forza politica capace di parlare a quel 10% di italiani che hanno scelto la nostra proposta e non quella di una destra e di una sinistra fallimentari, a quel 50% di italiani che alle ultime elezioni amministrative ha deciso di non votare e a quegli italiani che vogliono un Paese normale, equo e solidale (invece il nostro ceto medio è stato ridotto in mutande da politiche sociali miopi e di breve respiro!) ma perché siamo ormai a un bivio, visto che l’Europa cosi com’è non va, perché crea disoccupazione, recessione e conflitti culturali e sociali.
Le strade sono due: scegliere di contare in Europa, rafforzando i luoghi della decisione politica, oppure scegliere di abbandonare l’Europa navigando da soli e sapendo di affondare appena salpati (come vogliono Grillo, la Lega e una parte sempre più consistente della Destra populista e della Sinistra massimalista e radicale). Noi dobbiamo scegliere la prima strada, costruendo istituzioni politiche omogenee, forti, autorevoli e partecipate. Per questo dobbiamo chiedere che insieme al nuovo Parlamento i cittadini europei possano eleggere anche direttamente il Presidente della Commissione. Per questo dobbiamo costruire l’Europa come uno Stato Federale, se vogliamo competere con Stati Uniti, Sud America, Cina e India. Altrimenti nei prossimi decenni cambierà l’ordine economico mondiale e l’Europa sarà relegata a terra di transito e di consumo senza produzione e reddito autonomo. Per questo dobbiamo lavorare alla costruzione di un soggetto politico nuovo, fortemente ancorato alla cultura e ai valori del Ppe. Solo noi lo possiamo fare, rendendo forte e attivo l’Udc, che da sempre ha mostrato (a dispetto di certe rappresentazioni giornalistiche) di essere un elemento di vivacità e di innovazione, oltre che di libertà e di autonomia nel panorama politico italiano.
Dobbiamo farlo lavorando contemporaneamente su due fronti: la nostra capillare organizzazione con la promozione di iniziative politiche e culturali sul territorio e l’aggregazione a livello nazionale di forze e personalità interne ed esterne al mondo della politica, che siano in grado di interpretare queste istanze e i bisogni di una parte consistente e insoddisfatta del nostro Paese. La nascita del governo Letta, la sua attività (anche in condizioni di difficoltà dettate dalle oggettive ristrettezze economiche e dal tentativo di alcuni di farlo saltare per mero calcolo politico) sono funzionali a far uscire l’Italia dalla stagnazione. Per questo occorre sostenerlo se vogliamo che il passaggio alla Terza Repubblica sia positivo e non porti all’ennesimo deterioramento della vita politica e sociale. Questo periodo deve servirci anche per impostare una nuova politica dei redditi, che consenta di far rinascere il ceto medio italiano, vittima principale della crisi e delle politiche economiche degli ultimi anni. Il ceto medio rappresenta la spina dorsale del Paese, del suo tessuto reticolare di piccole e medie imprese, con la sua articolazione all’interno del pubblico impiego. Ha garantito la crescita dell’Italia e la sua tenuta nei momenti più difficili della crisi.
Oggi bisogna rivitalizzarlo attraverso politiche fiscali, sociali e di liberalizzazione che consentano di far crescere il suo potere d’acquisto. Questa è la nostra missione, non certamente quella di garantire lo status quo. In questa direzione vanno le politiche del governo Letta a cui stiamo lavorando: rivisitazione del sistema delle tasse su prima casa e Iva, sostegno all’occupazione giovanile (1,5 mld e altrettanti dai fondi Ue), investimenti per 15 miliardi nel 2014, semplificazioni (500 milioni), incentivi fiscali su ristrutturazioni e ammodernamenti energetici, sostegno alle Pmi, finanziamenti per 3 miliardi su importazione. Il 2014 può essere l’anno della rinascita economica e sociale, se solo lo vogliamo. Rinascita che i professionisti della rissa non vogliono perché altrimenti perderebbero il posto di lavoro. Può essere anche l’anno della nostra rinascita se rilanciamo la nostra iniziativa politica e rinnoviamo la nostra classe dirigente. Le elezioni amministrative hanno confermato la nostra presenza sul territorio, le nostre assemblee regionali hanno registrato partecipazione e voglia di lavorare. E credo che anche la festa di Chianciano potrà essere, come sempre, il momento di confronto e di rilancio della nostra azione politica. Per questo non dobbiamo guardare indietro, ma avanti, con fiducia e determinazione.
E soprattutto non dobbiamo avvitarci in polemiche e discussioni interne o esterne senza alcuna utilità. Il nostro contributo è ancora molto importante perché la nostra democrazia è a un bivio: diventare finalmente normale, come in tanti altri Paesi, con l’alternanza di partiti o forze politiche che si contendono la guida del Paese su programmi e contenuti omogenei senza estremismi, oppure proseguire sul piano inclinato della seconda repubblica, con un sistema inconcludente, incapace di riformare il Paese, di governarlo con decisione e responsabilità. Noi possiamo e dobbiamo essere determinanti perché si realizzi la prima condizione e non la seconda. Abbiamo fatto tanti sacrifici, tante rinunce, tante battaglie politiche per cambiare un sistema sbagliato e dannoso per il Paese. Non possiamo fermarci ora, giunti all’ultimo miglio. Abbiamo le carte in regola per farlo, non fermiamoci. Andiamo avanti insieme, uniti e determinati come prima. Grazie.