D’Onofrio: Le riforme (im)possibili

Francesco D’Onofrio è uno dei 35 «saggi» (preferirebbe venissero definiti «esperti») nominati dal governo che preparano il lavoro della commissione bicamerale per le riforme costituzionali. È professore emerito di Diritto Pubblico e garante degli studenti nella facoltà di Scienze Politiche nell’università La Sapienza di Roma. Autore di numerose monografie e pubblicazioni di Diritto Costituzionale italiano e comparato, anche con riferimento al regionalismo e al federalismo, ha conseguito il Master alla Law School nell’università di Harvard nel 1965 sotto la guida di Henry Kissinger. Parlamentare della Dc, poi dell’Udc, ha ricoperto le cariche di sottosegretario alle riforme istituzionali e agli affari regionali, e nel 1994 di ministro della Pubblica Istruzione. Ha fatto parte delle commissioni bicamerali per le riforme istituzionali presiedute da De Mita-Jotti, da D’Alema, e di quella che ha portato all’approvazione del Parlamento (nel 2004) di incisive riforme alla seconda parte della Costituzione, poi però non ratificate da un referendum. È Cavaliere di Gran Croce con motu proprio del Presidente Napolitano. Collaboratore di Studi Cattolici, in questa intervista con Nicola Guiso mette a fuoco problemi vitali per il presente e per il futuro politico-istituzionale dell’Italia.

Sei la memoria storica dei tentativi di riformare la Costituzione per via parlamentare. Perché (dai primi anni ’80 a oggi) sono falliti?
Credo perché i soggetti politici hanno sempre ragionato sulla base di esigenze particolari o del momento. Così, di volta in volta è mancato il consenso parlamentare o referendario per portarla a termine. Durante la commissione Bozzi (primi anni ’80) era la Dc che puntava a ritocchi marginali della Costituzione, per migliorare la dinamica e l’incisività delle procedure parlamentari. In quella presieduta, invece, prima da De Mita e poi dalla Jotti (fine anni ’80 primi ’90), il confronto era basato sulla possibilità di rivedere la Costituzione per fondare leggi elettorali diverse da quelle che avevano segnato sino ad allora la storia repubblicana. Ma si rivelò insuperabile il contrasto tra l’obiettivo del Psi di Craxi (che puntava a una legge elettorale maggioritaria che favorisse l’alterativa socialista) e quelli della Dc e del Pci (poi Pds) che non intendevano abbandonare il sistema proporzionale. Nella commissione presieduta da D’Alema (1997-98) la spinta politica dominante fu quella di una riforma di tipo federale dello Stato, portata avanti soprattutto dalla Lega Nord. Peraltro si tratta di questioni che, di fatto, sono ancora al centro del dibattito politico-istituzionale. Anche se vengono percepite in forme più emotive la riduzione del numero dei parlamentari e la fine del bicameralismo perfetto.

Credi che ora vi siano condizioni più favorevoli per giungere a iniziative concrete?
Sì, per quanto riguarda il rafforzamento dei poteri del governo e per la fine del bicameralismo perfetto, con la trasformazione del Senato su base federale o delle autonomie. Nel Pdl, e in settori del Pd, aumentano poi le spinte per giungere all’elezione diretta del Capo dello Stato. Anche se sull’argomento, quando se ne parla, non sempre le idee sono chiare.

Che cosa ha convinto il Capo dello Stato e l’attuale maggioranza a tentare ancora la riforma della Costituzione?
Credo che vi sia una convinzione espressa più volte dal presidente Napolitano e dal presidente Letta. Quella che all’origine delle nostre grandi difficoltà economiche, finanziarie e sociali stia una insufficiente capacità di governo. Quindi, potenziarla e affinarla servirebbe anche ad affrontare e risolvere meglio le difficoltà socio-economiche. Ed è questo il fattore di spinta in più rispetto al passato.

Perché, a differenza delle altre volte, si è giunti alla formazione di una commissione di 35 «saggi» a supporto del lavoro dei parlamentari?
 
Io vedo la via scelta per la riforma come un convoglio formato da quattro vagoni. Noi, i cosiddetti «saggi» (preferirei ci definissero «esperti ») siamo nel primo vagone: ragioniamo delle riforme sulla base della libertà di pensiero, ed entro ottobre di quest’anno dobbiamo completare il nostro lavoro di «suggerimento» al Governo, senza sostituirci in alcun modo a esso e al Parlamento, che sono i titolari del potere di revisione costituzionale in senso stretto. Nel secondo vagone opera la commissione parlamentare di 20 deputati e 20 senatori: hanno quattro mesi anche loro per fare le proposte di riforma costituzionale. Il terzo vagone (in cui si comincerà a lavorare nel febbraio del 2014 per sei mesi) è quello del Parlamento, che in base all’articolo 138 della Costituzione deve provvedere (col lavoro delle commissioni Affari Costituzionali e delle assemblee) a discutere e votare i testi di riforma. Questi sono i 18 mesi di cui parla il presidente Letta. L’ultimo vagone è quello del referendum, sul quale vorrei capire se si tratta di un referendum senza quorum o col quorum, perché la cosa, ovviamente, non è di poco conto. Dunque gli esperti non sono sostitutivi del governo o del parlamento; hanno un compito di istruttoria tecnico-culturale che precede la decisione politico-parlamentare.

In parte l’hai già chiarita, ma credo sia utile insistervi: l’obiezione che viene mossa alla commissione dei «saggi» (da Rodotà, dai Grillini ma anche da Zagrebelsky) è che la sua presenza nelle procedure di riforma, comporterebbe, comunque, una diminuzione delle prerogative in materia del Parlamento…
Sarebbe un’obiezione fondata se, lo ripeto, il nostro potere sostituisse o si sovrapponesse in qualche modo quello del Governo e del Parlamento. È vero invece che quando avremo presentato il nostro rapporto ciascuno di noi potrà essere o meno ancora ascoltato dal Governo o dalle commissioni parlamentari, come già accaduto in passato. Consultare esperti non comporta una sopraffazione del Parlamento e del Governo. Io in passato sono stato ascoltato più volte dalla commissione Affari Costituzionali della Camera e del Senato, e mai a nessuno è venuto in mente che il fatto avrebbe potuto costituire una menomazione delle prerogative di quegli organi. Se dico cose che il Parlamento condivide mi fa piacere; in ogni caso il potere decisionale resta suo.

Comunque, è stata messa in atto una operazione mediatica, volta a convincere che la commissione sarebbe composta da personalità in sintonia con le posizioni assunte negli ultimi tre anni dal Capo dello Stato per assicurare governabilità al Paese…
Lo escludo. Molti membri della commissione sono di matrici culturali diverse e hanno ricoperto incarichi di grande rilievo (presidenti della Corte Costituzionale, presidenti dell’Antitrust, membri del Consiglio Superiore della Magistratura, presidenti di uno dei due rami del Parlamento) prima che Napolitano diventasse Capo dello Stato. Per cui non vedo nessun collegamento. Altri hanno opinioni molto diverse rispetto all’attuale situazione politica. Ciascuno di noi pensa liberamente: non siamo stati scelti né dal Presidente della Repubblica né dal Governo con la condizione che ne condividessimo gli orientamenti. Siamo un gruppo di «esperti», di cui solo alcuni (una decina) hanno anche ricoperto l’incarico parlamentare in diversi schieramenti. Alcuni membri sono stati indicati dai gruppi parlamentari, ed è cosa che considero del tutto normale. Si potrebbe dire che siamo un’espressione della società civile rispetto alla politica; e che se riuscissimo in qualche modo a influenzarla positivamente mi farebbe piacere.

l Nel 2004 hai contribuito in modo significativo alla messa a punto e all’approvazione parlamentare di importanti modifiche alla seconda parte della Costituzione, poi però non confermate dal referendum svoltosi tre mesi dopo le elezioni politiche del 2006. In rapida sintesi, vuoi ricordare i punti più significativi di quella riforma?
Le modifiche erano espressione del tentativo politico di saldare anche sul terreno costituzionale l’alleanza tra Udc, Forza Italia, Alleanza Nazionale e Lega Nord. E credo che, al di là delle questioni tecniche, questo fatto sia stato all’origine dell’insuccesso patito dalla riforma nel referendum. Essa aveva quali elementi essenziali: l’istituzione del Senato federale (sostenuto soprattutto dalla Lega); le norme anti-ribaltone a tutela della maggioranza di Governo (sostenute da Alleanza Nazionale); il rafforzamento del Governo nella dinamica parlamentare (sostenuto soprattutto dagli ex democristiani). Da parte di Berlusconi e di Forza Italia si pensava che con queste intese si potesse rendere definitiva l’alleanza Fi, Udc, An e Lega. Questi gruppi approvarono in Parlamento la riforma, ma non con la maggioranza di due terzi alla seconda votazione di Camera e Senato, che avrebbe evitato di venire sottoposta a referendum, dove non venne ratificata. A mio giudizio (lo dissi allora e lo ripeto) gli oppositori usarono con efficacia la denuncia che non si potesse cambiare la Costituzione con l’apporto di soggetti politici che non avevano fatto parte dell’Assemblea Costituente (come Fi e la Lega), di «traditori» dello spirito costituente (come gli ex democristiani dell’Udc), e dei nostalgici del fascismo (come gli ex Msi di An). Dunque prevalsero pregiudiziali ideologiche che vennero, inoltre, rafforzate dal fatto che nel Mezzogiorno la riforma fu percepita soprattutto quale successo della Le ga: dunque, volta a rafforzare anche politicamente e nella dialettica parlamentare il Nord rispetto al Sud. Mentre le norme antiribaltone apparvero a molti come contrarie alla libertà dei parlamentari di cambiare schieramento.

Che cosa prevedevano?
Che se il Governo fosse stato sfiduciato col voto determinante di un gruppo della maggioranza, quel gruppo non avrebbe potuto concorrere alla formazione di una nuova maggioranza diversa.

Ritieni che il lavoro svolto allora abbia ancora valore per i «saggi» e per il Parlamento?
È possibile. Credo che vi sia un consenso largo tra i colleghi universitari, qualunque sia la loro matrice culturale, a favore di una camera definibile «Senato Federale », anche se c’è difficoltà a chiamarlo in questo modo. Infatti, l’accettazione delle modifiche apportate al titolo V della Costituzione, in cui si afferma che la Repubblica è costituita da regioni, province, comuni e città metropolitane, rende possibile chiamare il nuovo Senato «della Repubblica». Anche l’approfondimento fatto allora su altre questioni credo che meriterebbe oggi di essere tenuto in conto. Per esempio: noi, di fatto, con la creazione del «Senato Federale» determinavamo una diminuzione del numero dei parlamentari. Una scelta che considero anche oggi fattibile; e sicuramente più concreta e meno demagogica di certe proposte in materia che circolano. Per quanto riguarda la forma di governo io allora mi sono battuto per il modello tedesco del «Cancellierato», e lo sosterrò ancora, anche come risposta alla forte spinta (giusta) a rafforzare il Governo. Vi è chi ritiene che tale esigenza verrebbe meglio corrisposta con l’adozione di un sistema semipresidenziale, anche se non sempre vi è la necessaria chiarezza sui contenuti della definizione. Perché in Francia il Governo è un soggetto diverso dal Presidente della Repubblica ed è dipendente dal Parlamento. Fatto che comporta (è accaduto più volte) una «coabitazione» del Presidente della Repubblica, eletto da una maggioranza, e il Governo, sostenuto da una diversa. Situazione che in Italia potrebbe provocare conseguenze traumatiche. Noi abbiamo una Costituzione molto più equilibrata nel rapporto tra Presidente della Repubblica e Governo.
Abbiamo un Capo dello Stato che pesa nell’edificio costituzionale molto di più di quello tedesco; meno del Presidente francese; più del Re d’Inghilterra; meno del Presidente degli Stati Uniti. Io vorrei che perfezionassimo un modello italiano. Ho studiato a lungo negli Stati Uniti, dove le istituzioni sono legittimate da tre sistemi elettorali diversi. Le elezioni della Camera dei rappresentanti e del Senato sono regolate da leggi elettorali completamente diverse da quella con la quale viene eletto il Presidente. Tanto che negli Usa (è accaduto anche a Obama nel primo e nel secondo mandato) non è raro che i due rami del Parlamento esprimano maggioranze diverse, senza che il fatto metta in crisi l’approvazione dei bilanci e i processi legislativi ordinari e straordinari. Questo fatto in Italia (accaduto per tre volte negli ultimi venti anni) viene considerato più che un fatto anomalo un fatto insostenibile e inquietante. Allora la vera questione è stabilire con chiarezza quale debba essere il rapporto tra il Capo dello Stato, direttamente eletto dal Popolo, e il Parlamento. Gli esperti servono anche per richiamare che le questioni vitali per la vita della società e delle istituzioni non possono essere trattate sulla spinta di suggestioni e di pressapochismi.

L’elezione diretta del Capo dello Stato sembra aver fatto breccia anche nel Pd. Perché continua, invece, a essere considerata da una parte della sinistra (da Repubblica a Rodotà, a Zagrebelsky) una proposta antidemocratica?
Tale opinione (conosco bene Zagrebelsky e lo stimo come studioso) va tenuta in considerazione: si poggia sulla convinzione che il modello presidenziale, qualora non sia accompagnato da una fortissima rete di garanzie, politiche e non, rischierebbe di diventare antidemocratico. Ma se si adottassero forti elementi di equilibrio (come negli Stati Uniti e in Francia) penso che la loro valutazione del modello presidenziale o semi presidenziale potrebbe essere diversa. Su questo punto esprimono una cultura non molto distante dalla mia e da quella che è stata della Dc. Tra i soggetti intermedi essi sono portati a privilegiare i partiti. E ritengono che l’assenza o la debolezza dei partiti o di altri soggetti intermedi, accentuando i caratteri del rapporto diretto tra il popolo e il Capo dello Stato, potrebbero aprire varchi a tentazioni antidemocratiche.

l A che cosa ti riferisci quando richiami, oltre ai partiti, «forti soggetti intermedi»?
Possono essere le corporazioni di un tempo, i sindacati dei lavoratori, le associazioni delle forze della produzione, delle professioni, della scuola, degli operatori dei media, organismi pre-politici, di volontariato legati a valori particolari e impegnati in particolare nel sociale.

Sarebbe corretto e utile approvare la riforma elettorale prima che venissero approvate le riforme della Costituzione?
No, e su questo credo che abbia ragione il ministro Quagliariello. La legge elettorale è, normalmente, un prodotto del come è fatta una Costituzione. Noi abbiamo avuto dal 1946 in poi il sistema proporzionale, perché la Carta è ispirata al criterio proporzionalista. E quel sistema elettorale ha retto bene perché nei 45 anni successivi ha espresso un forte e rappresentativo soggetto politico, la Democrazia Cristiana, che ha assicurato una positiva governabilità alla società e alle istituzioni, nonostante le differenze sostanziali che vi sono sempre state nelle leggi elettorali per l’elezione della Camera e del Senato. Quindi, quando oggi si parla di modifica della legge elettorale è necessario chiarire a che cosa ci si riferisce. A quella di una sola Camera? A due leggi elettorali diverse, e, in questo caso, in base a quali elementi? È ovvio, però, che se si decidesse di non fare le riforme si aprirebbe un’altra partita in materia di leggi elettorali. Le dimissioni del Governo, le dimissioni del ministro non impedirebbero che un nuovo Governo e un nuovo ministro delle Riforme potrebbero modificare la leggi in vigore per la Camera e per il Senato o farne due nuove. Ma questo, ovviamente, significherebbe che la Costituzione resta quella che è.

Hai fatto cenno al ministro Quagliariello. È uno studioso del gollismo e della V Repubblica: credi che questi suoi interessi possano influenzare gli indirizzi ai quali ispira il suo lavoro?
Una qualche suggestione ci può essere. Ma anch’io ho studiato a lungo il sistema presidenziale americano senza per questo farne il mio modello di riferimento in materia di istituzioni. Lo considero però coerente con le condizioni e le esigenze che sono state alla base della formazione degli Stati Uniti. Considero sostanzialmente lontano dalle radici della nostra storia nazionale l’adozione di un regime presidenziale. E ricordo che Quagliariello ha messo sempre in evidenza non solo l’eccezionalità della figura di De Gaulle, ma anche la tradizione della Francia post-rivoluzionaria, e le condizioni eccezionali, e irripetibili, in cui venne a trovarsi nel 1958. Sconvolta dalla crisi provocata dalla decolonizzazione, e segnata, in termini di estrema violenza, dalla guerra in Indocina e dalla guerra «di liberazione» in Algeria, trasformata dai militari dell’Oas in guerra civile. Sono convinto che oggi il dato primo di riferimento della nuova realtà italiana dovrebbe essere l’integrazione europea. E mi chiedo se passare all’elezione diretta del Capo dello Stato non finirebbe per innescare nuove tensioni di tipo nazionalistico. Mentre credo che vi sia estremo bisogno di sensibilizzare la coscienza e l’intelligenza del nostro popolo a una profonda e convinta dimensione europea. Cosa che, ovviamente, presuppone soprattutto grandi trasformazioni nei modi di essere e di operare dei tradizionali e nuovi soggetti politici, sociali e istituzionali.

Per chiudere, ti propongo una questione in apparenza di bassa cucina politico-partitica, ma che tale non è. Il ministro Quagliariello ha detto che se non venissero rispettati i tempi previsti per le riforme istituzionali (a cominciare dalla conclusione entro ottobre del lavoro dei «saggi»), o se le procedure per le riforme fossero utilizzate per rallentare l’impegno del Governo e della maggioranza nel fare fronte ai gravi problemi economici e sociali del Paese, non esiterebbe a dimettersi. Ma da qualche importante settore del suo partito la sua posizione è stata bollata come oltranzista. Come giudichi la questione?
Sono d’accordo con Quagliariello. I tempi previsti per noi, per le commissioni parlamentari, per i dibattiti e per i voti in aula sono ragionevoli. Se i primi quattro mesi dimostrassero che vi sono ostacoli di sostanza, farebbe benissimo a denunziarli e, nel caso dovessero perdurare, a dimettersi. Quegli ostacoli confermerebbero infatti che le riforme istituzionali continuano a essere la copertura di questioni ideologiche, politiche o di interessi che hanno radici profonde. E che pertanto possono essere rimosse solo con gesti aperti e forti di denuncia e di coerenza tra affermazioni e comportamenti; meglio se compiuti da personalità di alto profilo culturale come Gaetano Quagliariello.

Tratto da «Studi cattolici» numero 629-630, Agosto 2013










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